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Morosità oltre 6 mesi: l’amministratore può sospendere riscaldamento e acqua calda

Se l’intervento necessita di accesso nell’appartamento del moroso però occorre un via libera del giudice

 

Nel caso in cui la morosità si protragga per un semestre, l’amministratore ha il diritto di sospendere il condomino dall’utilizzo dei servizi comuni che possono essere goduti separatamente, senza necessità di ottenere un’autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria. Tuttavia, è l’amministratore a doversi assumere la responsabilità di verificare la sussistenza dei presupposti richiesti (articolo 63, comma 3 delle disposizioni di attuazione del Codice civile).

 

Sospensione servizio acqua calda

La norma era stata invocata dal condominio nel ricorso per provvedimenti urgenti, al fine di ottenere la sospensione del servizio di acqua calda sanitaria e riscaldamento nei confronti di una condomina morosa da oltre sei mesi (Tribunale di Perugia, ordinanza 1036/2025).

Tuttavia, essendo l’impianto centralizzato, le derivazioni individuali che corrispondevano alle utenze si trovavano all’interno dei singoli appartamenti, rendendo necessario accedere all’immobile per intervenire sugli attacchi dell’acqua sanitaria e del riscaldamento al fine di interromperne l’erogazione.

Per questo motivo, il condominio aveva richiesto al giudice l’autorizzazione ad accedere all’appartamento della controparte, sostenendo la presenza del fumus boni iuris, vista la morosità protratta per oltre sei mesi, e del periculum in mora, considerando la significativa entità del debito accumulato e il conseguente rischio di insolvenza del condominio nei confronti del fornitore.

 

L’esito

Con l’instaurazione rituale del contraddittorio, la parte convenuta era rimasta contumace. Il Tribunale ha accolto il ricorso. Il giudice ha evidenziato che, nel caso specifico, non era in discussione il diritto di procedere al distacco temporaneo di quei servizi comuni che possono essere fruiti separatamente senza necessità di autorizzazione giudiziaria, tra cui figurano la fornitura di acqua calda sanitaria e quella destinata al riscaldamento, giustificato da una morosità della resistente ben superiore al semestre. Tuttavia, ciò che si poneva come questione era la necessità di ottenere un’autorizzazione per accedere alla proprietà della contumace al fine di sospendere il servizio. Tale esigenza era dimostrata dalla presenza di un pericolo imminente, considerando la durata della morosità e la necessità dell’intervento per arginare l’aggravarsi del danno. L’obiettivo era evitare che, a causa dell’accumulo crescente del debito, gli altri condòmini fossero costretti a rispondere solidalmente per le somme dovute, ai sensi dell’articolo 63, comma 2, delle disposizioni attuative del Codice civile.

Conclusioni

Per i motivi sopra esposti, il Tribunale ha disposto che la parte resistente permetta immediatamente all’amministratore, assistito da personale tecnico qualificato, di accedere al proprio immobile, limitatamente a quanto necessario per interrompere le derivazioni di acqua calda sanitaria e di riscaldamento.

In definitiva, il condominio non è tenuto a rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione a sospendere il servizio al condomino moroso, trattandosi di un diritto già riconosciuto al condominio. Tuttavia, è necessario il ricorso al giudice per ottenere il permesso di accedere all’unità abitativa del condomino in questione e procedere con gli interventi tecnici indispensabili alla sospensione del servizio.

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Illegittima la delibera che a maggioranza concede in locazione il terrazzo condominiale

Ciò è possibile solo in caso di oggettiva impossibilità o non ragionevolezza di un godimento diretto e paritario da parte di tutti i condòmini

 

Con la sentenza n. 12930, emessa il 23 settembre 2025, il Tribunale di Roma ha affrontato il tema della legittimità della delibera, approvata a maggioranza, che prevede la concessione in locazione di parti comuni, con particolare riferimento al terrazzo condominiale.

 

I fatti

La vicenda in esame ha origine dal ricorso presentato da una condòmina contro due delibere approvate a maggioranza, rispetto alle quali aveva espresso voto contrario. Nella prima delibera, l’assemblea aveva accolto la richiesta di un condòmino di prendere in locazione il terrazzo condominiale per un anno, previo corrispettivo economico. Con la seconda delibera, era stata autorizzata la stipula del contratto di locazione relativo.

La condòmina ricorrente contestava la legittimità di entrambe le delibere, sostenendo che queste violassero il suo diritto al pieno utilizzo diretto del bene comune. Tale diritto, oltretutto, è esplicitamente riconosciuto e regolamentato dal regolamento condominiale.

 

La decisione

La tesi sostenuta dalla condòmina è stata accolta dal Tribunale, il quale ha deciso di annullare entrambe le delibere. Nella sua pronuncia, il giudice di Roma ha fatto riferimento al consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, secondo cui l’uso indiretto di un bene comune, come la sua locazione, può essere deliberato a maggioranza solo nei casi in cui non sia praticabile un utilizzo diretto dello stesso bene da parte di tutti i comproprietari, proporzionalmente alle loro quote. Questo utilizzo diretto dovrebbe avvenire in forma promiscua oppure attraverso un sistema organizzato di suddivisione degli spazi o turni temporali. (Cassazione, sentenza 22435 del 27 ottobre 2011; Cassazione, sentenza 16557 del 12 giugno 2023).

 

Conclusioni

Nel caso specifico si è constatata la chiara possibilità per tutti i condòmini di utilizzare la terrazza, come stabilito anche dal regolamento condominiale che ne gestisce l’uso esclusivo tramite prenotazione. Di conseguenza, una delibera che assegni l’utilizzo del terrazzo condominiale tramite maggioranza risulta illegittima, poiché contrasta con il diritto fondamentale di ogni condòmino, garantito dall’articolo 1102 del Codice civile. In sintesi, il potere dell’assemblea condominiale di deliberare a maggioranza sulla locazione di un bene comune non è arbitrario, ma deve essere vincolato alla comprovata impossibilità o al mancato buon senso di un utilizzo diretto e equo da parte di tutti i condòmini.

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Rumori molesti in condominio: scatta il reato anche in assenza di perizia fonometrica

Inoltre il disturbo deve essere potenzialmente lesivo: è del tutto indifferente che solo una o due persone lo abbiano effettivamente avvertito

 

Vivere in un condominio significa spesso dover affrontare situazioni spiacevoli legate ai rumori molesti provenienti dai vicini. Che si tratti di radio o televisione ad alto volume, lavori domestici, cani che abbaiano, caduta di oggetti pesanti, spostamento di mobili o qualsiasi altro tipo di disturbo sonoro, siamo tutti ben consapevoli di come questi rumori possano influenzare negativamente il riposo e la tranquillità quotidiana. Ma è possibile che i vicini rumorosi siano del tutto ignari di poter essere responsabili di un comportamento che costituisce un vero e proprio reato? E, ancora, conoscono realmente le caratteristiche precise di tale condotta illecita? Il provvedimento emesso il 26 settembre scorso dalla terza sezione penale della Cassazione (sentenza numero 32043/2025) rappresenta un importante strumento informativo non solo per i condòmini vittime di questi disturbi, ma anche per gli stessi autori delle molestie. Questa sentenza richiama principi giurisprudenziali consolidati e di significativa rilevanza pratica che meritano attenzione e riflessione.

 

La vicenda

Il Tribunale di Brindisi aveva condannato un condòmino al pagamento di una multa di 300 euro per il reato previsto dall’articolo 659, comma 1, del Codice penale, relativo al disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone. L’accusa nei confronti dell’imputato riguardava rumori molesti, prodotti soprattutto durante la notte, e l’ascolto di musica ad alto volume, che avrebbero compromesso il normale riposo e lo svolgimento della quotidianità dei condòmini dell’appartamento sottostante. Dopo la sentenza di condanna, l’imputato ha deciso di presentare ricorso in Cassazione, basando la propria difesa su due principali motivazioni:

– Violazione di legge (mancanza della pluralità di persone): l’imputato sosteneva che il reato non sussistesse poiché il disturbo avrebbe riguardato esclusivamente gli abitanti dell’appartamento sottostante, senza ledere la quiete pubblica. Nessun altro condòmino aveva infatti presentato lamentele.

– Vizio di motivazione (assenza di accertamenti tecnici): veniva evidenziata la mancanza di elementi oggettivi volti a dimostrare l’entità dei rumori e la loro idoneità a disturbare effettivamente la quiete pubblica. In particolare, veniva contestato che il giudice avesse basato la sua decisione esclusivamente sulle testimonianze delle persone offese, senza disporre una perizia fonometrica o ulteriori accertamenti tecnico-scientifici, necessari per verificare la reale offensività di un reato qualificato come presunti pericolo.

 

Condanna anche se il rumore è avvertito da una sola persona

La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla vicenda, ha emesso un provvedimento che ribadisce alcuni principi essenziali elaborati nel tempo dalla giurisprudenza in merito all’applicazione dell’articolo 659, comma 1, del Codice penale.

Per respingere il primo motivo di ricorso, relativo alla presunta irrilevanza delle lamentele provenienti esclusivamente dagli abitanti del piano inferiore e non da altri condòmini, i giudici sottolineano che non importa quanti individui abbiano effettivamente percepito il disturbo. La norma tutela un bene giuridico sovraindividuale: l’ordine pubblico, inteso come tranquillità pubblica. Tuttavia, quando manca una turbativa alla quiete pubblica, le lamentele isolate di una o due persone non sono sufficienti a configurare il reato.

L’articolo 659, comma 1, non si pone a tutela del singolo individuo — come avverrebbe in un’azione civile legata a immissioni moleste — ma mira a salvaguardare la quiete e la tranquillità pubblica nella loro dimensione collettiva. Pertanto, la contravvenzione rientra nella categoria dei reati di pericolo presunto. In termini pratici, ciò implica che la condotta rumorosa deve essere idonea, anche solo in modo astratto, a disturbare non soltanto poche persone ma un gruppo più ampio.

Un aspetto cruciale risiede nella potenziale diffusività dei rumori molesti e nella loro capacità di essere percepiti da un numero indefinito di individui, come potrebbe accadere in un intero condominio o in una parte rilevante del vicinato. In contesti condominiali, ciò significa che i rumori devono essere tali da compromettere la quiete di un’ampia porzione degli occupanti dello stabile, anche se, nella realtà, solo alcuni residenti presentano reclami.

 

Non osta neppure l’assenza di una perizia

Passiamo ora a esaminare le motivazioni che conducono al rigetto del secondo motivo di ricorso, il quale si basa sull’assenza di una perizia fonometrica atta a valutare l’intensità del rumore. Per accertare il reato oggetto della controversia, è fondamentale stabilire se le immissioni sonore abbiano oltrepassato la soglia della normale tollerabilità. Solo in tale circostanza si può parlare di un reale impedimento al riposo e alle attività quotidiane di un numero imprecisato di persone.

 

La Corte di Cassazione sottolinea che la verifica del superamento della suddetta soglia non rappresenta una valutazione strettamente tecnica, che richieda necessariamente l’esecuzione di una perizia fonometrica. Piuttosto, si tratta di un giudizio basato su fatti, rimesso alla prudente valutazione del giudice, il quale può costruire il proprio convincimento su una varietà di elementi probatori.

 

Gli strumenti istruttori rilevanti possono includere, come nel caso in esame: – le testimonianze delle persone offese o di altri individui (ad esempio i vicini) che descrivono le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti; – le dichiarazioni degli appartenenti alle forze dell’ordine intervenuti sul luogo (i militari) che hanno personalmente constatato la musica ad alto volume e/o la presenza di rumori oggettivamente tali da influire sulla quiete pubblica.

 

Conclusioni

I giudici di Piazza Cavour ritengono che non sia sempre essenziale misurare con precisione i decibel emanati dal soggetto rumoroso; in alcuni casi, infatti, può essere sufficiente che la testimonianza o le valutazioni degli operatori abbiano dimostrato chiaramente la natura oggettivamente offensiva e diffusa del rumore, considerando le circostanze specifiche. Alla luce della dettagliata analisi effettuata, la Cassazione respinge il ricorso, confermando la condanna penale già stabilita. Oltre alla sanzione, il condannato è tenuto a sostenere le spese processuali e corrispondere un contributo alla Cassa delle ammende, come previsto nei casi di ricorsi inammissibili.

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Le spese in tema di conservazione del tetto vanno ripartite tra tutti i condòmini

Si tratta di bene rientrante, per la funzione necessaria all’uso collettivo, tra le cose comuni

Le coperture condominiali, indipendentemente dalla loro conformazione (che siano spioventi, a falde, orizzontali o miste), rientrano generalmente tra i beni comuni secondo quanto stabilito dall’articolo 1117 del Codice Civile. Pertanto, la loro manutenzione e conservazione richiedono la partecipazione economica di tutti i condòmini, come disposto dall’articolo 1123, comma 1, del Codice Civile. Nel caso in cui l’edificio presenti diverse falde o lastrici solari che appaiono separati, sarà necessario valutare concretamente la possibilità di ripartire le spese in base alla normativa applicabile. In particolare, si potrà fare riferimento all’articolo 1123 del Codice Civile per suddividere i costi tra coloro che traggono beneficio dalla copertura o, alternativamente, all’articolo 1126 del Codice Civile se si tratta di un lastrico solare ad uso esclusivo.

 

I fatti

Nel caso esaminato dal Tribunale di Catania (sentenza n. 4305/2025), un condomino aveva impugnato una delibera assembleare che stabiliva la ripartizione delle spese per la manutenzione del tetto. Il tetto era composto da tre diverse falde e un lastrico solare ad uso esclusivo e apparentemente separato. L’assemblea aveva deciso di suddividere i costi in parti uguali tra le proprietà situate direttamente al di sotto, secondo quanto previsto dall’articolo 1123 del Codice Civile, e di applicare i criteri dell’articolo 1126 del Codice Civile per i lavori relativi al lastrico solare, di proprietà esclusiva di un singolo condomino.

 

La ripartizione veniva contestata perché ritenuta contraria ai criteri legali stabiliti dall’articolo 1123, comma 1, del Codice Civile. Il condomino richiedeva pertanto l’annullamento della delibera adottata a maggioranza. Dopo che la domanda era stata rigettata in primo grado, il condomino presentava appello davanti al Tribunale, che accoglieva il ricorso, annullando la delibera impugnata.

 

Riparto spese conservazione tetto

Il Giudice richiama il principio secondo cui, in materia di conservazione del tetto di un edificio condominiale, le spese relative devono essere ripartite tra tutti i condòmini in proporzione al valore delle loro proprietà esclusive, come previsto dalla prima parte dell’articolo 1123 del Codice Civile. Questo perché il tetto rientra tra i beni comuni, essendo destinato a un’utilità collettiva, in quanto protegge l’edificio condominiale dagli agenti atmosferici e dalle infiltrazioni d’acqua piovana. Non può invece essere considerato un bene utilizzabile in maniera diversa dai singoli condòmini o destinato al godimento esclusivo di alcuni e non di altri, ai sensi dei commi 2 e 3 dello stesso articolo (Cassazione 24927/2019). Nel caso specifico, i lavori di manutenzione deliberati dall’assemblea riguardavano una porzione del tetto apparentemente separata dalle altre falde e coperture. Tuttavia, la consulenza tecnica d’ufficio (CTU) aveva evidenziato una connessione funzionale nel sistema di deflusso delle acque, collegato a pluviali che servivano una o più falde, rendendo impossibile distinguere in modo netto, per singola porzione, i benefici che ciascun bene avrebbe potuto trarre in misura diversa.

 

Conclusioni

Questo escludeva l’applicazione delle disposizioni contenute nell’articolo 1126 e nell’articolo 1123, comma 3, del Codice Civile. Tali norme presuppongono una chiara separazione tra i corpi di fabbrica, mentre la connessione strutturale e funzionale tra di essi giustificava invece l’applicazione dell’articolo 1123, comma 1, dello stesso Codice, che prevede la ripartizione delle spese tra tutti i condòmini. Di conseguenza, la delibera è stata annullata poiché il criterio di ripartizione delle spese era stato modificato a maggioranza invece che all’unanimità (Cassazione 27233/2013).

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Prorogato il bonus mobili. Sugar e plastic rinviate al 2027

Detrazione del 50% confermata per l’acquisto di arredi ed elettrodomestici in caso di lavori di ristrutturazione in casa

 

Ancora un anno per il bonus mobili. L’agevolazione destinata all’acquisto di arredi e grandi elettrodomestici seguirà la linea già delineata nei giorni scorsi in tema di ristrutturazioni e miglioramento dell’efficienza energetica (come riportato da Il Sole 24 Ore del 10 ottobre): anche nel 2026 si proseguirà con l’impostazione attualmente in vigore. Mentre il disegno di legge di Bilancio prende forma, il Ministero dell’Economia sta lavorando in questa direzione. Sul fronte delle proroghe, intanto, è stata confermata la sospensione fino al 2026 della sugar tax (prevista per il 1° gennaio) e della plastic tax (prevista per il 1° luglio). L’estensione del bonus mobili non è a costo zero: il prolungamento di un anno dell’attuale misura, richiesto più volte dal presidente di FederlegnoArredo, Claudio Feltrin, avrà un impatto di circa 700 milioni di euro. In totale, le risorse destinate nella manovra ai bonus edilizi superano i due miliardi di euro, considerando anche il bonus ristrutturazioni e l’ecobonus. Questi ultimi sono stati confermati con aliquote del 50% per l’abitazione principale e del 36% per le seconde case, come anticipato sempre da Il Sole 24 Ore del 10 ottobre.

Se le disposizioni sull’agevolazione verranno confermate nello schema attuale, il bonus mobili consentirà una detrazione pari al 50%. A differenza di quanto accade per le ristrutturazioni e gli interventi di efficientamento energetico, non ci sarà distinzione tra prime e seconde case, che in quei casi beneficiano rispettivamente del 50% e del 36%. Rientreranno tra le spese detraibili, ad esempio, quelle relative all’acquisto di letti, armadi, cassettiere, librerie, scrivanie, tavoli, sedie, comodini, divani e poltrone. Tra gli elettrodomestici saranno inclusi, inoltre, forni, lavatrici, lavasciugatrici, lavastoviglie, frigoriferi e congelatori.

La regola che collega l’acquisto di arredi ed elettrodomestici a un intervento di ristrutturazione principale, supportato dal bonus casa nella sua versione base, sarà confermata. Tuttavia, la detrazione è riconosciuta solo se i lavori di recupero del patrimonio edilizio sono iniziati dopo il 1° gennaio dell’anno precedente all’acquisto. Pertanto, per effettuare acquisti nel 2026, sarà necessario avviare la ristrutturazione a partire dal 1° gennaio 2025. Rimane invariato il limite massimo di spesa, fissato a 5.000 euro. Un dettaglio significativo, considerando che tra il 2022 e il 2024 il tetto era stato praticamente dimezzato, scendendo da 10.000 a 5.000 euro. Questo limite, infatti, è stato più volte ridotto in passato per contenere l’impatto economico di questo incentivo sui conti pubblici.

Posticipata nuovamente l’entrata in vigore della nuova tassa sulle bevande analcoliche zuccherate. La sugar tax, inizialmente prevista per il primo gennaio 2026, subirà un ulteriore rinvio di un anno: rimarrà sospesa per tutto il 2026, sincronizzandosi così con la plastic tax, anch’essa congelata per un altro anno. Questa decisione risponde alle richieste provenienti dalle imprese interessate. Vale la pena sottolineare che entrambi i tributi sono stati oggetto di continui rinvii nel tempo; questo ulteriore slittamento potrebbe offrire l’opportunità di riconsiderarne l’impostazione.

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Nessun cartello per la telecamera privata anche se è installata su muro comune

Sono ammissibili se non ostacolano il pari uso e il decoro: devono essere però puntate solo sulla proprietà di chi le installa

 

Secondo il Tribunale di Catania, sezione III civile, con la sentenza 4262/2025, l’installazione di una videocamera di sorveglianza privata in un condominio non richiede la presenza di cartelli di segnalazione. In base a quanto stabilito dagli articoli 1102 e 1122 del Codice Civile, il privato ha facoltà di ancorare il sistema di sorveglianza sulle parti comuni dell’immobile, purché vengano rispettate determinate condizioni, oltre alla necessità di informare preventivamente l’amministratore. Tali condizioni prevedono che l’installazione non alteri l’uso originario dell’area, non limiti la possibilità per gli altri condomini di utilizzare anch’essi lo spazio comune e non comprometta il decoro architettonico dell’edificio. La sentenza è stata emessa in seguito alla contestazione di una delibera condominiale che aveva ordinato la rimozione delle telecamere installate da una coppia di condomini, vittime ripetute di furti. La consulenza tecnica d’ufficio (CTU) aveva evidenziato che le videocamere erano rivolte esclusivamente verso le parti di immobile di proprietà dei proprietari che le avevano installate. Tuttavia, alcuni condomini si erano opposti comunque alla loro presenza. Le ragioni principali? L’assenza di segnalazione delle telecamere e l’utilizzo di una porzione del muro condominiale per la loro installazione.

I giudici chiariscono che, nel caso di un impianto di videosorveglianza privato, cioè installato da un singolo condomino e non dal condominio, non sussiste l’obbligo di esporre cartelli informativi, a condizione che la telecamera sia collocata all’interno dell’appartamento o sul balcone e registri esclusivamente l’area privata, come ad esempio il proprio veicolo nel cortile, senza riprendere spazi comuni o ledere la privacy di terzi. Diversamente, qualora le telecamere private inquadrino zone comuni o proprietà altrui, diviene necessario installare cartelli informativi che specifichino il titolare del trattamento, le finalità dello stesso, il periodo di conservazione dei dati raccolti e i diritti degli interessati, in conformità alle direttive del Garante della privacy.

L’installazione sul muro condominiale non ostacolava in alcun modo l’uso del muro da parte di altri e occupava uno spazio estremamente ridotto. Inoltre, una delle telecamere in questione riprendeva anche una parte delle aree comuni condominiali. Quest’ultima non doveva essere rimossa, ma poteva rimanere installata semplicemente regolando l’angolazione del suo campo visivo. È bene sottolineare che la delibera dell’assemblea condominiale è richiesta esclusivamente per l’installazione di sistemi di videosorveglianza sulle parti comuni. Al contrario, per gli impianti installati dai condomini all’interno delle loro abitazioni o relative pertinenze, non è necessario alcun tipo di approvazione da parte dell’assemblea.

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È vietata l’affissione in bacheca di debiti condominiali

Qualunque informazione relativa ai partecipanti al condominio, raccolta dall’amministratore nell’ambito della gestione condominiale, costituisce a tutti gli effetti «dato personale»

 

L’affissione, nella bacheca situata nell’androne condominiale, di dati personali riguardanti le posizioni debitorie dei singoli condòmini eccede i limiti di una comunicazione giustificata tra i condòmini stessi. Tale pratica, infatti, avviene in uno spazio accessibile al pubblico e non solo risulta superflua per le esigenze di amministrazione condominiale, ma comporta soprattutto la divulgazione di tali dati a una platea indeterminata di persone estranee. Questo costituisce una diffusione indebita dei dati, configurando una responsabilità civile sulla base degli articoli 11 e 15 del Codice per la protezione dei dati personali. Tale posizione è stata chiarita dal Tribunale di Taranto nella sentenza n. 826 del 7 aprile 2025.

 

L’indebita diffusione di dati

La sentenza è particolarmente efficace nel rilevare che, quasi sempre, l’esposizione pubblica dei dati dei morosi nella bacheca condominiale non ha l’obiettivo di informare sui fatti, ma piuttosto quello di esercitare una forma di inadeguata reprimenda. A supporto di tale interpretazione, la Corte Suprema, con la sentenza n. 29323 del 7 ottobre 2022, ha chiaramente stabilito che anche la comunicazione in bacheca dell’avviso di convocazione dell’assemblea, contenente il nominativo di un condòmino non in regola con i pagamenti, rappresenta una diffusione illecita di dati personali.

 

Cosa si può pubblicare in bacheca

È sorprendente che il concetto non sia ancora diffusamente conosciuto e applicato, nonostante la sentenza della Corte Suprema n. 186 del 4 gennaio 2018 abbia chiarito che qualsiasi informazione riguardante i partecipanti al condominio, raccolta dall’amministratore nel contesto della gestione condominiale, costituisce a tutti gli effetti un “dato personale”. Di conseguenza, il trattamento e la diffusione di tali dati devono rispettare le disposizioni del Decreto Legislativo 196/2003 e del Regolamento Europeo 679/2016 (come evidenziato anche nelle sentenze della Cassazione n. 17665/2018 e n. 15186/2021).

Ciò comporta l’obbligo di rispettare i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza in relazione alle finalità per cui i dati sono raccolti. Sebbene sia vietato esporre pubblicamente i morosi, tale divieto non ostacola in alcun modo il diritto di ogni condomino a conoscere gli eventuali inadempimenti altrui verso la collettività condominiale. Tuttavia, queste informazioni devono rimanere confinate alla cerchia strettamente condominiale, mentre le comunicazioni riportate sulla bacheca condominiale devono mantenere un carattere generale e riferirsi esclusivamente a beni e servizi comuni.

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Privacy: la registrazione delle assemblee condominiali, quando è possibile e a quali condizioni

Devono essere previamente autorizzate da delibera, limitate, sicure e cancellate dopo l’uso previsto

È lecito registrare l’assemblea condominiale? Chi ha l’autorità per farlo? E, soprattutto, quali misure devono essere adottate per garantire il rispetto della normativa sulla privacy? Questi interrogativi stanno diventando sempre più comuni nella gestione delle dinamiche condominiali, complice l’aumento delle controversie e il crescente bisogno di trasparenza. A questo proposito, le Linee Guida 2025 del Garante per la protezione dei dati personali, contenute nel documento di indirizzo sul trattamento dei dati in ambito condominiale, offrono oggi una risposta precisa, bilanciando trasparenza, correttezza e salvaguardia della riservatezza dei partecipanti.

 

Registrazione da deliberare

La registrazione audiovisiva o esclusivamente audio dell’assemblea rappresenta un trattamento di dati personali, in quanto consente di identificare, direttamente o indirettamente, i partecipanti, le loro dichiarazioni, le opinioni espresse e persino le modalità di voto. Per questo motivo, non può essere effettuata in modo arbitrario. In linea generale, una registrazione è consentita solo se approvata dall’assemblea stessa con la maggioranza dei presenti e preceduta da un’adeguata informativa diretta a tutti i partecipanti, da comunicare prima dell’inizio dell’incontro. Non è quindi mai permesso che un singolo condomino proceda autonomamente alla registrazione dell’assemblea senza informare né aver ottenuto il consenso degli altri, poiché tale comportamento configurerebbe un trattamento illecito, come più volte sottolineato dal Garante.

 

Il contenuto della delibera

Le finalità legittime per effettuare una registrazione possono variare, ma devono sempre essere chiaramente specificate nella delibera. Tali finalità possono includere la redazione del verbale, la documentazione delle attività svolte o l’attestazione di quanto accaduto durante l’assemblea. In ogni caso, non è mai consentita la diffusione delle registrazioni al di fuori della sfera condominiale, così come la loro pubblicazione online o l’invio indiscriminato tramite email o WhatsApp. A tal proposito, il Garante stabilisce con fermezza che la registrazione deve essere conservata solo per il tempo strettamente necessario alla stesura del verbale o alla verifica delle decisioni prese e deve essere eliminata una volta esaurito lo scopo per cui è stata effettuata.

L’utilizzo della registrazione per finalità di tutela legale, ad esempio in caso di contestazioni relative a una delibera, può essere ammissibile, ma deve essere esaminato caso per caso alla luce dei principi di liceità, minimizzazione e necessità. Anche in tali circostanze, è indispensabile fornire un’informativa dedicata e garantire che l’accesso alle registrazioni rimanga limitato esclusivamente alle parti coinvolte nel procedimento.

 

Inserimento nel registro

Le Linee Guida 2025 stabiliscono che il trattamento dei dati deve sempre essere documentato per essere considerato lecito. Qualora sia l’amministratore a occuparsi della registrazione, questi è tenuto a registrarla nel registro delle attività di trattamento e ad adottare misure di sicurezza adeguate, come la protezione dell’accesso alle registrazioni, la cifratura dei file e la cancellazione automatica una volta decorso il termine stabilito. I file non possono essere conservati indefinitamente sul computer dello studio amministrativo né trasferiti senza controllo attraverso canali non sicuri, come chat informali o gruppi WhatsApp. Anche in questo ambito, il Garante raccomanda massima cautela, precisando che le comunicazioni elettroniche contenenti dati personali devono avvenire mediante canali sicuri e protetti da accessi non autorizzati.

È inoltre fondamentale sottolineare che il diritto di effettuare registrazioni non è una prerogativa individuale di un singolo condomino. Solo una delibera assembleare, approvata secondo le modalità previste dalla legge, può autorizzare la registrazione di un incontro. Registrazioni effettuate con modalità differenti, come quelle realizzate di nascosto, possono essere segnalate al Garante o utilizzate in sede giudiziaria solo nei rari casi eccezionali riconosciuti dalla giurisprudenza, ad esempio se si configurano come prove in un procedimento penale in presenza di un reato.

 

La registrazione senza via libera è illecità

È importante sottolineare che l’amministratore di condominio non può procedere autonomamente con la registrazione dell’assemblea senza una specifica delibera approvata dai condòmini, secondo le maggioranze stabilite dalla legge. Tale attività non rientra tra i suoi poteri ordinari e non può essere giustificata neppure invocando il principio di trasparenza o la necessità di redigere il verbale, a meno che non vi sia un’esplicita autorizzazione. Le Linee Guida 2025 del Garante per la privacy chiariscono infatti che la registrazione delle assemblee condominiali è possibile solo previa delibera assembleare che specifichi le finalità della registrazione e a seguito di un’adeguata informativa ai partecipanti. L’amministratore, quindi, non ha il diritto di effettuare registrazioni su iniziativa personale. Di conseguenza, qualsiasi registrazione effettuata senza informare preventivamente i partecipanti o senza l’approvazione dell’assemblea è considerata illecita e può configurare una violazione dei diritti degli stessi, con tutte le relative conseguenze, incluse eventuali sanzioni previste dal GDPR.

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Agevolazione prima casa anche per immobili in costruzione

La Nota II bis dell’articolo 1 della Tariffa, Parte I, allegata al DPR 131/1986, che regola l’agevolazione per l’acquisto della prima casa ai fini dell’imposta di registro, è applicabile anche nei casi di permuta in cui si cede un bene esistente in cambio dell’impegno a costruire una futura unità immobiliare abitativa (nota come permuta tra cosa presente e cosa futura o “cambio camere”). Questo beneficio è previsto a condizione che l’operazione abbia lo scopo di garantire all’acquirente la propria prima abitazione e che l’immobile sia effettivamente destinato a uso residenziale, rispettando i requisiti stabiliti dalla legge. Tale interpretazione è stata confermata dalla Cassazione con l’ordinanza n. 25761, pubblicata il 22 settembre 2025.

 

La vicenda processuale

Nel caso analizzato, tre privati hanno ceduto la proprietà di un immobile a una società a responsabilità limitata, con l’impegno da parte di quest’ultima di realizzare tre unità abitative. Il progetto edilizio è stato completato entro il termine di tre anni dalla registrazione dell’atto notarile. Nonostante ciò, l’Amministrazione finanziaria ha emesso un avviso di liquidazione per il recupero della maggiore imposta, ritenendo che l’agevolazione “prima casa” fosse revocabile. Tale decisione amministrativa è stata contestata e il giudice d’appello ha annullato l’avviso, considerando che la natura atipica del contratto di permuta non precludesse l’applicazione dell’agevolazione. Successivamente, l’Amministrazione ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo l’inapplicabilità dell’agevolazione al caso specifico, basandosi sulla differenza tra cosa presente e cosa futura.

La destinazione del bene

La Corte di Cassazione, respingendo le obiezioni sollevate dall’Amministrazione, ha ribadito un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’agevolazione “prima casa” è applicabile anche all’acquirente di un immobile in fase di costruzione, a patto che lo stesso sia destinato a uso abitativo principale e non rientri nelle categorie catastali di lusso. La conservazione del beneficio è condizionata all’ultimazione dell’immobile entro il termine di tre anni previsto dall’articolo 76, comma 2, del Dpr 131/1986, scadenza che incide sulla possibilità dell’Amministrazione di verificare il possesso dei requisiti necessari per il godimento dell’agevolazione (sentenza della Cassazione 5180/2022).

La Corte ha inoltre sottolineato la logica sottesa alla Nota II bis, che mira a favorire l’acquisto della prima abitazione. Escludere l’agevolazione nei confronti di chi acquista un immobile non ancora completato determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto a chi compra un immobile già ultimato. Su questo punto si è espressa favorevolmente anche la giurisprudenza di legittimità in casi riguardanti acquirenti di fabbricati collabenti, purché suscettibili di interventi edilizi finalizzati alla trasformazione in abitazioni principali (ordinanza 3913/2025).

Dal ragionamento adottato dalla Corte si deduce che, ai fini dell’applicazione delle agevolazioni previste per l’acquisto della prima casa, prevale la reale destinazione dell’immobile a residenza principale dell’acquirente rispetto alle condizioni materiali o procedurali dell’immobile al momento dell’acquisto. Di conseguenza, anche la permuta tramite cui si cede un bene già esistente in cambio della costruzione di una futura unità abitativa può rientrare nell’ambito della Nota II bis, purché tale operazione sia finalizzata ad assicurare la prima casa e la destinazione a residenza venga effettivamente realizzata entro i termini stabiliti dalla legge.

 

Il trasferimento di residenza

L’ordinanza 25761/2025 non ha fornito una soluzione definitiva riguardo al termine entro cui l’acquirente di un immobile in costruzione deve trasferire la propria residenza nel Comune dove si trova l’immobile per usufruire dell’agevolazione prevista. La questione è oggetto di dibattito sia in ambito dottrinale che giurisprudenziale: da un lato, la Corte di Cassazione, con la sentenza 17867/2022, ha riconosciuto applicabile anche a questa fattispecie il termine di 18 mesi a partire dalla data di acquisto per il trasferimento della residenza, equiparando l’acquisto dell’immobile in costruzione all’acquisto di un immobile già completato; dall’altro, decisioni di merito hanno adottato posizioni divergenti, dando luogo a orientamenti non uniformi.

La distinzione tra il termine di tre anni per il completamento dell’immobile e quello di 18 mesi per il trasferimento della residenza si basa sulla diversa natura degli istituti normativi coinvolti: il legislatore ha esplicitamente fissato il termine entro cui va trasferita la residenza, mentre non ha definito alcuna scadenza per la realizzazione dell’edificio. Questa differenza comporta, nei casi in cui l’immobile non risulti completato entro i 18 mesi, che il contribuente possa trovarsi nella condizione di dover trasferire la propria residenza in un altro immobile situato nello stesso Comune, con lo scopo di mantenere il beneficio fiscale. Tale questione solleva la necessità di una riflessione critica in chiave interpretativa e di un possibile intervento normativo, al fine di eliminare ambiguità applicative e prevenire eventuali disparità di trattamento.

Informazioni utili

Risarcimento a chi scivola nel cortile solo se prova il nesso tra caduta e pavimentazione

La caduta avvenuta in un cortile condominiale è al centro dell’ordinanza della Cassazione 22283/2025, resa pubblica il 2 agosto. L’episodio ha origine dall’azione legale promossa da una donna che, scivolando nell’androne di un condominio a Milano, ha attribuito l’incidente allo stato della pavimentazione, descritta come eccessivamente lucida, e alla presenza di neve, ghiaccio e acqua accumulatisi dopo una copiosa nevicata. La donna aveva avanzato una richiesta di risarcimento nei confronti del condominio, che a sua volta aveva coinvolto l’assicurazione dello stabile. Tuttavia, la signora, risultata soccombente sia in primo che in secondo grado per non aver dimostrato adeguatamente il legame tra le condizioni della pavimentazione e la caduta, ha deciso di ricorrere alla Corte di Cassazione.

 

La natura oggettiva della responsabilità del custode

Nemmeno la Suprema Corte ha accolto le ragioni della parte danneggiata. Facendo riferimento alla sentenza di Cassazione n. 11152/2023, i giudici di legittimità hanno sottolineato che la responsabilità prevista dall’articolo 2051 del Codice Civile è di natura oggettiva, poiché si basa esclusivamente sulla prova del nesso causale tra la cosa custodita e il danno.

Tale responsabilità non si fonda su una presunzione di colpa del custode, ma su un criterio di imputazione che attribuisce a chi detiene la custodia della cosa il compito di rispondere per determinati eventi, indipendentemente da qualsiasi elemento di colpa nel comportamento del custode.

 

La prova del nesso causale

Per quanto riguarda la richiesta di risarcimento, il danneggiato deve dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità tra il danno subito e l’oggetto in custodia, nonché le eventuali misure che avrebbero dovuto essere adottate per prevenire il verificarsi dell’evento. Questo principio, sancito dalla Cassazione (sentenza 22764/2024), stabilisce che il risarcimento è legittimato solo qualora sia provato il collegamento causale tra la cosa e il danno, prescindendo dalle caratteristiche intrinseche o dalla pericolosità dell’oggetto stesso. Inserire l’avvenimento in un contesto specifico, come ad esempio un androne, non basta: è fondamentale dimostrare la concreta dinamica dell’accaduto, vale a dire l’insieme dei fattori e la sequenza dei fatti che hanno portato alla generazione dell’evento, evidenziandone gli effetti determinanti.

 

L’imprudenza della vittima

La signora non ha fornito prove che l’incidente si sia verificato esattamente nel tratto innevato. Di conseguenza, viene meno il collegamento con le condizioni dell’androne e si evidenzia un’altra questione: la negligenza della stessa signora. In qualità di condomina e consapevole delle condizioni meteorologiche, ha attraversato lo spazio comune senza adottare alcuna precauzione.